Giacinto
Ciò che di
terribile ci fu in quella giornata ai espresse in un lugubre pensiero
mattutino: ormai leggevo i libri così come si sta accanto ad un parente malato e
vicino alla morte.
Andavo avanti
con le pagine, sentendo che quello era il mio compito. Nello stesso tempo
desideravo che finisse presto, che arrivassi il prima possibile all’ultima
pagina, anche se mi vergognavo di pensare in quel modo.
Ci sono dei
momenti, di stanchezza patologica, in cui il corpo si ribella. Lotta anche
contro le più banali regole di comportamento, di minima umanità. Così si spera che
arrivi presto la fine del lavoro che si sta portando avanti, anche se quel
lavoro è un dovere morale, anche se quel lavoro significa stare accanto a chi
ha condiviso con te il pane, la sofferenza, la vita.
Leggevo i
libri nello stesso modo. Continuavo a piegarmi allo sforzo di capire, di
decodificare quei segni che arrivavano dentro di me attraverso gli occhi
stanchissimi, e, nello stesso tempo, speravo in un incendio, nell’incendio
della biblioteca di Alessandria
d’Egitto, nella fine della letteratura.
Ciò che
accadde nelle cose, nella materia della quotidianità, ciò che avvenne nella
realtà contemporaneamente alla presa di coscienza della mia disfunzione
libresca non fu altrettanto sorprendente. Né instillò nel mio animo terrori da
film horror.
C’era un
morto. C’era un cadavere che digrignava i denti verso di me pur non avendo, io
nei suoi riguardi, alcun legame di parentela, né di causalità. Non sapevo chi
fosse. Non lo conoscevo ed era ormai tardi per conoscerlo. Se fossi arrivato
qualche ora prima forse l’avrei trovato vivo e persino simpatico. Così com’era
ora, freddo e disinteressato alle mie cose, non poteva farmi alcuna simpatia.
Quando avevo
aperto la porta della cucina e lo avevo trovato lì, sul pavimento bianco con le
fughe nere, in quella pozzangherina di sangue rosso rosso, avevo subito pensato
alla grafica di un programma televisivo da proporre a qualche televisione
locale, scritte e fondi di quei colori che si potevano realizzare anche con Power Point, in una diapositiva,
salvarla poi come immagine e metterla tra le interviste e i commenti da studio.
Più che la
preoccupazione di una tragedia tanto inattesa e cioè quell’uomo morto o
addirittura ucciso in casa mia, continuò a terrorizzarmi il pensiero del mio
modo di leggere i libri. Prima di chiamare la Polizia, mi fermai a riflettere
ancora qualche minuto su quello che era il vero dramma della giornata: avevo
scoperto di leggere così come si sta al capezzale di un morituro.
L’uomo a
terra aveva trovato una comoda posizione tra una delle sedie prese da poco
all’Ikea e il frigorifero bombato che avevo portato via dalla casa dei miei. Con
la testa rivolta all’insù, mostrava i denti e la parte superiore del palato. Guardai
da vicino, anche verso il basso, come fanno i medici per dire che la gola è
sempre un po’ arrossata e che bisogna prendere un antibiotico e starsene a
riposo per qualche giorno.
Preparai un
caffè al poliziotto che attese con me in salotto l’arrivo del magistrato. Anche
lui non mostrava grande interesse per il cadavere disteso in cucina. Mi chiese
di alcuni libri mentre continuava ad osservare i titoli, piegandosi verso
destra o verso sinistra a seconda di com’erano disposti sulle mensole.
Mi sembrò interessato
alla letteratura e così provai a spiegare il malessere di quella infausta
mattina. Provai a sfogare tutto ciò che avevo dentro di me riguardo ai libri.
Lui si disinteressò alle mie parole. Era soltanto incuriosito dai titoli.
Voleva che io spiegassi perché i titoli dei libri sono così poco chiari.
- Prenda Pinocchio – mi disse -; mica capisco dal titolo che è un burattino
che poi diventa bambino. Non lo capisco dal titolo. Invece dovrei avere più informazioni.
Ebbi qualche
difficoltà a giustificare titoli come Robinson
Crusoe o I Malavoglia rispetto
alle storie che i libri contenevano. Provai a spiegare, per salvaguardare gli
autori, che spesso sono le case editrici a scegliere il titolo definitivo,
soprattutto per le opere degli scrittori più giovani, che hanno ancora poco potere
contrattuale. Provai a dire che, alla fine, il titolo di un libro è come il
nome di una persona: anche se brutto, dopo un po’ non può essere cambiato
perché quella persona o quel libro sono un tutt’uno con il nome o con il
titolo.
Cercavo di
spiegare ma ero poco convincente. Non riuscivo a concentrarmi sulle parole da
usare per persuadere. Tornava continuamente a tormentarmi il pensiero del mio
nuovo atteggiamento nei confronti dei libri. Era un pensiero che mi torturava
perché pensavo di essermi ammalato, di essere diventato un lettore malato.
In cucina,
intanto, erano arrivati quelli della Polizia Scientifica. Il poliziotto che mi
teneva compagnia mi disse che erano gli stessi che avevano lavorato nella
villetta di Cogne per la vicenda del piccolo Samuele e poi vicino Parma per
quella storiaccia del piccolo Tommaso.
Lo disse come
per dare importanza a quello che io e lui stavamo facendo.
- Sicuramente la inviteranno in
qualche trasmissione televisiva – mi confidò -. Lei parla bene. Approfitti di
quelle occasioni per mettersi in evidenza. Quando finirà questa storia, magari
ci guadagna qualcosa. Ecco, magari questa cosa che ha detto a me, che lei legge
come un morto che sta morendo, è una cosa che può interessare. È originale…
Nell’altra
stanza avevano impacchettato il cadavere e erano lì lì per portarlo via. Il
magistrato venne da me a presentarsi e a chiedermi come stessi.
Risposi che
andava tutto bene, tranne che per quel brutto pensiero che mi aveva sorpreso in
mattinata.
Lui sembrò
davvero molto incuriosito dalla mia riflessione e cominciò a pormi tutta una
serie di domande, persino molto personali. Era tutta una serie di curiosità che
ormai nessuno ha nei confronti del prossimo. Il magistrato, invece, con la sua
eleganza e con il suo interesse nei confronti del prossimo, sembrava davvero un
uomo di altri tempi.
Avevo sempre
desiderato un colloquio così, tale e quale a quello che l’uomo di legge
conduceva con tanta perizia. Riuscivo finalmente a parlare di me stesso. Per esempio
del fatto che avessi trovato quell’uomo disteso in casa non di ritorno da una
passeggiata qualsiasi ma tornando dall’edicola, perché io tutte le domeniche
vado a comprarmi il mio Sole24Ore e butto via tutto il giornale tranne
l’inserto letterario settimanale.
A lui parlai
della mia solitudine e di quella maledetta malattia, quella mania di leggere i
libri desiderando la loro fine. Mentre ne parlavo con lui pensai che forse
desideravo la loro fine perché, piano piano, ormai mi ero innamorato della mia solitudine
e l’ultima pagina del libro mi riportava in quella condizione beata che ormai
era parte importantissima della mia vita. Ascoltò con interesse persino questa
mia ipotesi improvvisata, pensata lì per lì, mentre parlavo con lui.
Gli raccontai
che la mia solitudine era una scelta. Che non avevo vissuto sempre da solo. Che
nella mia vita c’era stato Giacinto. Parlai di lui dopo tanti anni di silenzio.
Dissi che era passato davvero tanto tempo. Che con lui avevo viaggiato e amato
l’arte. Avevamo passato insieme molte serate invernali a leggere, uno accanto
all’altro. Avevamo immaginato l’apertura di una libreria per sostenerci facendo
un lavoro piacevole e per stare insieme tutto il giorno. Ma era passato così
tanto tempo dal giorno in cui avevamo deciso di dividere le nostre strade. In
verità, non ero stato io a decidere. Non mi ero opposto, però, perché mi
piaceva pensare che l’amore fosse anche rispettare le scelte che l’altra
persona fa.
Chissà cosa
faceva Giacinto ora. Il magistrato continuava a chiedere di lui. Io sentivo
forte il desiderio di rivederlo. Lui avrebbe trovato sicuramente una
spiegazione a quel malessere relativo ai libri, a quella depressione bibliofila
che pensavo di avere. Ma quanti anni erano passati? Troppi! Non l’avrei
riconosciuto. Se avesse bussato alla mia porta, o se fosse entrato con le sue
chiavi per attendere il mio rientro e farmi una sorpresa, avrei avuto grosse
difficoltà nel riconoscerlo. Non sono mai stato molto fisionomista. Spesso
faccio delle figuracce perché non saluto le persone che mi hanno presentato
soltanto pochi giorni prima. Anche Giacinto si lamentava spesso di questo mio
difetto.
I poliziotti,
intanto, avevano chiuso la mia cucina. Non volevano che altri vi mettessero
piede prima di aver capito come e perché quel morto si trovava in casa mia. Il
magistrato mi fece portare un caffè dal bar sotto casa. La chiacchierata con
lui era finita e, anche se ero molto stanco, mi dispiaceva molto. Avrei voluto
parlare ancora di me. Il poliziotto che in mattinata mi aveva tenuto compagnia mi
fece un sorriso dal corridoio.
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