|
||
GESÙ DI CASTELMAURO Pubblicato
su L’Interruttore,
anno 0 numero 5, dicembre 2001 e su Turzo Ten,
Edizioni IBC, 2011 Per
me il Natale è davvero una festa. Sono nato il 25 dicembre
del 1921. Veramente
non fu un parto naturale né cesareo. Fu la levatrice a
infilare la mano e a
tirarmi fuori prendendomi per il pisello. Mia madre recitava in una
compagnia
teatrale di Castelmauro e quel giorno faceva la Madonna. Il regista
Pasquale
Sfraffaprete aveva pensato a tutto: un parto in diretta. Dovevo nascere
in
chiesa alla mezzanotte, in coincidenza con Gesù. Solo che io
non ne sapevo
niente e la chiesa era fredda. Tutto era pronto: i mandarini inzino ai
re magi,
la mirra che nessuno sapeva cos’era e così avevano
messo il lardo squagliato in
un barattolo di conserva, e il sagrestano con la corda della campana
che doveva
tirare mentre io uscivo come un Cristo di Castelmauro. La
mia famiglia non era di Castelmauro. Mio padre era un contadino di
Larino e mia
madre una musulmana di Ortona. Io nacqui a Castelmauro, in diretta,
preso per
il pisello dalla levatrice perché non volevo uscire. Tutto
era pronto e io no.
Il prete era nervoso come un ulivo di Venafro. «Cacciatelo
fuori – disse – se
no facciamo mattina!». Non mi ricordo niente di quel momento.
Me lo hanno
raccontato tante volte, però; ogni volta che mi sono riunito
con la famiglia
per pranzo di Natale. Il
Natale del 2001 mi ha portato ottanta anni suonati come le campane del
sagrestano. I Natali che più ricordo sono quelli
dell’adolescenza. A
quattordici anni mio padre mi regalò una zappa, la mise
sotto l’albero di
Natale. Io avevo chiesto, nella lettera a Babbo Natale, le scarpette da
pallone
come quelle di Piola. Ma mio padre non sapeva leggere. Quando mi
svegliai corsi
immediatamente a vedere cosa c’era sotto l’albero.
Vidi la zappa e mi
emozionai. Mio padre se ne accorse e guardò negli occhi mia
madre: «Hai visto –
disse – stu guaglione è nato
faticatore». Quando mi resi conto di cosa voleva
dire zappare piansi tutto il giorno, tutto il giorno di Natale. A
Santo Stefano me ne scappai in Argentina. E lì potete
immaginare che Natale si
passa. Fa caldo come a Petacciato ad agosto e invece del panettone ri
danno la
bistecca di vacca con l’uva passa. Una volta ho passato il
Natale a Rosario, da
Franco lu Sdreus di Campomarino. Lui era partito nel 1908 ed
è ancora vivo. In
due mangiammo mezza vacca arrosto. L’altra metà se
la mangiarono i figli, una
trentina, con le mogli e i nipoti. Fu un Natale da circa duecento
persone. Nel
periodo di Natale, durante la mia adolescenza, scannavano i porci. Ai
bambini
cadevano i capelli, rimanevano traumatizzati. Quando lo scannavano, il
maiale
urlava assai ed io mi mettevo paura. Invece gli uomini grossi si
divertivano.
Qualche volta il porco se ne scappava con il coltello nel collo e tutti
lo
inseguivano per le vie del paese. Io ero vegetariano perché
la mia famiglia non
poteva permettersi il porco. Mio padre diceva sempre: «Noi
siamo persone
civili, non uccidiamo i portci». Ma poi tirava il collo alle
galline di
Vincenzo Sgrizzalota che abitava vicino casa nostra. Io mi abbottavo la
panza
di cicoria e mi
fumavo le glianne. Il
maestro ci faceva scrivere la poesia di Natale e, già da
allora, ero un grande
poeta incompreso. A otto anni ne scrissi una e la misi sotto il piatto
di papà.
Me la ricordo a memoria Quando
sciocca
|
||
|
|
|
|
||
|