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TURZO
PER IL BENE COMUNE DI GIUGNO 2015
--- Turzo per la presentazione di
“Che sarà di noi” 28 Aprile 2015 Sala ex-Gil, Campobasso Se mi avessero chiamato pure a me a scrivere per questo libro, avrei attaccato come ha attaccato Nico Alfieri nel primo capitolo. Le stesse parole. Eppure Nico Alfieri tiene vent’anni. E io ne tengo novanta. E cinquanta li ho passati all’Argentina. Alfieri ha scritto: “Quando penso alla terra in cui sono cresciuto per venti anni, quando mi chiedono previsioni sul Molise e sul suo destino, subito mi ingrigisco e non riesco a non provare un profondo senso di colpa per la mia totale indifferenza. Persino il pensiero di tornare a casa mi abbatte, se non fosse per gli affetti e i ricordi, per le persone che hanno contato tanto per me e che mi porto ancora dentro in ogni mio passo - persone che mi aspettano lì per riabbracciare ed essere riabbracciate”. In effetti, qualcosa lo avrei cambiato. Lui parla del senso di colpa mentre io non lo provo più il senso di colpa perché tengo novant’anni, e me ne frego. Ma il pensiero di tornare a casa mi abbatte pure a me. E, certe volte, io e Ruzzone abbattiamo pure la porta di casa perché non troviamo le chiavi. Insomma, il pensiero di tornare a casa mi abbatte pure a me, anche se io non tengo nessuno che mi aspetta perché un vecchio qua in Molise non tiene nessuno che lo aspetta – lui sta al paese e i figli a Campobasso, lui sta al paese e i figli a Isernia o a Termoli – quando i figli li tiene vicino. Quando i figli stanno fuori stanno a casa del diavolo e non si fanno venire nessuna voglia di tornare, né a Pasqua né a Natale, né durante la Stagione come si faceva una volta. Né possono invitare il loro vecchio a Milano o a Torino o a Londra perché tengono da fare e non possono stare appresso a noi. È tale e quale a quando stavamo noi all’Argentina. Che facevi finta che invitavi quelli che erano rimasti qua ma quelli non potevano venire; perché noi abbiamo capito che esistevano le ferie solo una trentina di anni fa. Prima non la conoscevamo neanche la parola “Ferie”. E se qualcuno, o perché si organizzava o perché non teneva niente da fare, si permetteva di venire a trovarti all’Argentina – che doveva venire il terramoto che succedeva una cosa del genere – allora tutti noi che stavamo là ci mettevamo a disposizione e lo facevamo girare da una casa all’altra per fargli vedere che pure alla periferia più periferia di Buenos Aires si stava meglio che al Molise. Che pure dentro alla pezzentaria più fetente, dentro alle carrettere polverose che Miguel pisciava vicino a un bidone e Carmencita sciacquava lo straccio dentro a una pescolla, almeno tenevi una musica vera, il tango, che ti acchiappava l’anima e te la sbatteva in faccia e ti faceva capire chi eri e che cazzo volevi dalla vita. Che qua manco quello tenevamo. Che sapevamo fare solo zimpe e zampe come alla musica abruzzese, o zampe e zimpe come alla musica napoletana, o tarataratà come a quella pugliese. E manco tenemmo la capacità di capire che Peppino Ciccorea, un kuta kuta musicante di Guardiaregia, era l’unico che sapeva fare la fuscion e dicemmo subito che era contaminato e lo schiaffammo dentro alla casa di cura di Guardialfiera che già allora teneva le sovvenzioni dell’Asrem. Questi altri che hanno scritto dentro al libro li conoscevo tutti quanti. E con le cose che hanno scritto mi hanno fatto rivedere tutti i pensieri che mi sono passati dentro alla capa in questi novant’anni. Alcuni li tenevo già messi in ordine. Altri me li hanno sistemati loro con le loro parole, che li tenevo pure io quei pensieri ma stavano arravugliati. E mi hanno fatto un favore grosso: che almeno prima di morire mi trovo tutto a posto e non devo affrettarmi a chiudere la valigia quando arriva chi mi si deve portare a casa del diavolo. Questi altri, dunque, li conoscevo. Ma Nico Alfieri non lo avevo mai letto. E mi ha fatto impressione assai. Ho provato la stessa cosa che provai a Napoli quando mi imbarcai per l’Argentina e vidi per la prima volta una nave talmente grossa che mi appoggiai a Ruzzone perché non sostenevo la vista del gigante e meno male che Ruzzone teneva due mezze birre Peroni che si era portato dal Molise che se non mi distraeva con il colore marrone della bottiglia della Peroni e il sole che ci luccicava sopra mi sa che mi dovevano raccogliere con il cucchiarino. E mo vi dico perché Alfieri mi ha fatto impressione. Fino a quando non leggevo quello che aveva scritto questo guaglione di vent’anni, io pensavo che il Molise era condannato a fare la stessa fine che ha fatto il presidente della Regione di sinistra Giovanni Di Stasi: … … … sparire. Dopo che ho letto Nico Alfieri, invece, mi è tornata la speranza. Mi sono sentito come a quando tenevo trent’anni e mi allutravo dentro all’erba delle Pampas pensando che quello che mi doveva succedere non poteva essere che Bellezza e Sanità. Su una sola cosa non mi trovo. Lui dice che se chiedi a un ragazzo molisano cosa ne pensa del Molise ti senti rispondere “niente” perché ai ragazzi non gliene frega niente del Molise. Forse è vero che rispondono così ma ci sta un motivo. Non è vero che non gliene frega niente. Quando alla Cantina Iammacone entra qualche giovane e si mette a pazziare con il biliardino che Iammacone tiene appiccicato alla parete dall’elezione di Sammatino al Senato, subito arriva qualche vecchio che dice: se vuoi segnare devi fare così, devi menare di spizzo, devi tenere la mano più moscia, devi marcare con il centravanti. E chiamano ancora il difensore terzino. Che pure ai miei tempi questa cosa io non la capivo perché allora i terzini tenevano il numero 2 e il numero 3 e tu, con qualche sforzo, potevi arrivare a capire perché si chiamava terzino quello con il 3 ma, pure se ti spremevi la capoccia come spremono le vinacce quelli che vogliono fare una stizza di vino in più, non riuscivi a spiegarti perché si chiamava terzino pure quello con il numero 2. Figurati oggi se i guagliuni possono capire una cosa del genere! Insomma se i giovani provano a vedere come si pazzeia a bigliardino, subito i vecchi gli fanno calare la uallera e dopo cinque minuti vedi che dentro alla Cantina rimaniamo i soliti pensionati, la solita passatella e la solita Peroni. Io sono convinto che se uno gli dicesse: Volete pazziare? E pazziate! Tanto chi cazzo lo usa più il bigliardino? Sono convinto che se uno gli mettesse in mano il bigliardino quelli lo farebbero funzionare meglio di noi. E ci uscirebbe un divertimento pure per noi vecchi. Che una cosa è fare la passatella dentro al silenzio della Cantina, con le cascette di birra vuota appoggiate al flipper, e una cosa è farsi la passatella mentre con la coda degli occhi vedi la gioventù che ride, che si avvampa, che frizza e si spassa a due metri da te. Ecco: noi molisani anziani dovremmo sparire come a Giovanni Di Stasi. Tanto, noi, dal Molise una qualche pensione normale e una d’accompagnamento, d’invalidità o di ex consigliere, da sindacalista o da postino invalido, ce la siamo fatta uscire. E mo dovremmo avere la dignità di sparire. Ci dovremmo mettere da parte. A questi giovani li dovremmo lasciare da soli a pazziare con il bigliardino e a pazziare con il Molise. Sicuramente dentro a tutta la regione ci staranno una cinquantina di Nico Alfieri! Una cinquantina di giovani dai venti ai trent’anni capaci di vedere e di scrivere in questo modo. Che persino la loro grammatica te lo dice che quella è la via giusta. Persino come accocchiano le parole una dopo l’altra. Basta sentire come il rigo che scrivono si dispone sulla carta appresso al rigo che hanno scritto prima per capire che tengono le palle. Che uno può bluffare a fare il politico, può bluffare a fare un comizio, si può imboscare dentro all’ospedale se è medico, persino come ingegnere. Ma a scrivere si vede subito chi sei e quanto vali. Appena scrivi, ti riconoscono. E allora a questi giovani dovremmo mettere le chiavi della regione in mano, a una cinquantina di giovani come a Nico Alfieri e aspettare dieci anni. Sono sicuro che se i consiglieri regionali, i tre o quattro parlamentari, i segretari dei partiti, noi che scriviamo, quelli che fanno la televisione, quelli che fanno finta di fare gli imprenditori con i soldi della regione, quelli che aspettano un altro terremoto per assumere una decina di persone che gli dice l’assessore, quelli che hanno inventato i Pip e alle Pip ci hanno fatti rimanere – se tutti noi, insomma, ci tiriamo indietro e ci mettiamo a fare la passatella mentre a questi guagliuni affidiamo il loro futuro e la nostra dignità, la speranza diventa possibile e - dopo settant’anni di democrazia cristiana di Iorio, di democrazia cristiana di Leva, di democrazia cristiana di Frattura, di democrazia cristiana di partito democratico e, persino, di democrazia cristiana di Movimento Sociale e di Rifondazione Comunista – la democrazia arriverà pure nel Molise. Senza aggettivi. Democrazia e basta. |
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